Europa

Tutti europeisti?

Mario Draghi ci insegnerà a discutere in modo normale di Europa?

Photo by Francesca Tirico on Unsplash

L’Italia è da quasi dieci anni ostaggio di due narrazioni contrapposte, l’una pericolosa, l’altra ingenua, che le impediscono di fare passi in avanti nel suo rapporto con l’Unione europea.

Da un lato Matteo Salvini, Claudio Borghi, Alberto Bagnai, sostengono che l’unico modo per recuperare sovranità è uscire dall’Unione europea e dall’euro per «fare da soli», cioè stampare moneta. 

Dall’altro il Partito democratico e raggruppamenti vari come Più Europa portano avanti un europeismo acritico, tanto da definirlo nei giorni scorsi come l’architrave del nuovo governo (e cercare in questo modo di escludere Salvini). Come se scegliere di stare nell’Unione europea fosse un fine di per sé, e non un dato di fatto. 

Salvini ha fatto un regalo enorme ai nostri europeisti: ha consentito loro di non elaborare una propria visione. 

Dire «noi non vogliamo uscire» è semplicissimo, non serve dire altro, e anzi permette impunemente di parlare di Stati Uniti d’Europa, una formula senza alcun senso logico ripetuta più volte da Matteo Renzi, il segretario del Pd più longevo.

Tutto questo ci ha fatto perdere tempo, mentre altre opinioni pubbliche riflettevano in modo più strutturato e approfondito sul proprio ruolo in Europa.

Non sappiamo se la conversione di Matteo Salvini sia genuina, probabilmente non lo è, visto che Claudio Borghi ancora oggi ripeteva su Twitter che «uscire dall’euro è una certezza, non una speranza». E però può provocare, lentamente, la marginalizzazione di opinioni come questa.

Voglio dire, Luigi Di Maio è passato dal raccogliere firme per uscire dall’euro e chiedere l’impeachment per Sergio Mattarella, a sostenere senza porre condizioni un governo guidato dall’ex presidente della Bce per seguire la strada tracciata «con saggezza» dal presidente della Repubblica.

Nessuno gliene chiede più conto e in fin dei conti è anche giusto così: se quelle idee infantili abbandonano il dibattito pubblico ne guadagniamo tutti. Anche perché, marginalizzate le idee, in modo fisiologico scompariranno anche questi personaggi.

L’alternativa è la bancarotta, intellettuale e finanziaria.

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PD e dintorni, Politica

Matteo Renzi ha un enorme problema di credibilità

Matteo Renzi ha un enorme problema di credibilità.

È un problema che viene da lontano, dalla seconda parte della sua esperienza di governo, quando ha scommesso tutto il suo capitale politico sul referendum costituzionale e dopo averlo perso ha cominciato a prendere continue decisioni contraddittorie.

Soprattutto, dà l’idea di ritenersi al di sopra di qualsiasi regola di opportunità politica e vive come una seccatura chiunque gli faccia notare che non tutto è concesso, e che ci si aspetta un determinato comportamento da chi ricopre uffici pubblici. Il fatto che il panorama politico italiano sia devastato da personaggi peggiori di lui non è una scusa e non rileva.

Da quando Renzi non è più presidente del Consiglio ha cominciato a tenere conferenze retribuite in giro per il mondo. Viene invitato come accade a moltissimi ex capi di Stato, e com’è prassi chiede e riceve compensi elevati per parlare in pubblico. Nulla di strano, se non fosse che non ha mai abbandonato la politica attiva, come invece hanno fatto i suoi omologhi, e anzi ha detto più volte che intende tornare a Palazzo Chigi. Nel frattempo, a marzo 2018, è stato eletto al Senato della Repubblica; “sono senatore semplice”, ama ripetere in pubblico.

Ora, un eletto che rappresenta il popolo italiano, un ex presidente del Consiglio con l’ambizione di tornare a occupare ruoli di governo, deve prestare attenzione ai luoghi in cui tiene le sue conferenze e alla provenienza dei soldi che percepisce per tenerle. In particolare, Matteo Renzi nel 2019 è andato in Arabia Saudita in veste di privato cittadino all’evento al Future investment initiative di Riyad, e ha ricevuto un compenso, dice, da un’organizzazione americana.

Il punto è che quando sei un senatore in carica, nulla di ciò che fai è neutro.

Un esempio aiuterà: ai diplomatici e i politici occidentali in Israele, nelle occasioni ufficiali e ufficiose, viene continuamente offerto vino prodotto sulle alture del Golan, una zona che Gerusalemme occupa dal 1967. L’occupazione non è riconosciuta dalla comunità internazionale, e quindi si cerca di evitare di bere il vino, perché vorrebbe dire implicitamente riconoscere l’occupazione.

Se si è attenti su una questione così formale, lo si deve essere anche su questioni più concrete. Nel 2018 lo stesso evento era stato disertato dagli ospiti più in vista perché era appena stato reso pubblico l’omicidio di Jamal Khashoggi, giornalista del Washington Post ucciso dai servizi sauditi nel consolato del paese in Turchia.

Quanto è credibile un politico in carica che prende alla leggera tutto questo e applica il principio “pecunia non olet”?

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Politica

Il governo dei padri di famiglia

Su “Chi” di questa settimana (settimanale che noi giornalisti guardiamo troppo poco e invece è utilissimo per capire il paese reale) ci sono quattro pagine dedicate alle scampagnate di Matteo Salvini e Giuseppe Conte con i rispettivi figli, al ristorante l’uno e nei negozi del centro di Roma l’altro.

La messa in scena mi ha ricordato un pezzo che ho scritto quest’estate per l’Opinion sul tratto comune dei populisti di casa nostra: mostrarsi come il buon padre di famiglia.

Matteo Salvini ricorda sempre che esercita il potere come un buon padre di famiglia, e che prende delle decisioni politiche come se dovesse tenere conto dell’interesse condiviso del suo nucleo familiare.

Lo slogan prima gli italiani? “Un padre di famiglia dà da mangiare prima ai suoi figli. Non è nazionalismo, è buon senso!”, argomenta. La durezza nei confronti delle navi delle Ong che aiutano i migranti nel Mediterraneo? “Lo dico come ministro e come papà: nessuna accoglienza per le navi Lifeline e Seefuchs, l’Italia non vuole essere complice di questo”. La sua posizione ambigua sui vaccini? “Sono padre, ho vaccinato i miei figli perché è utile. Ma dieci vaccini sono troppi, è pericoloso. Chi, più di un padre, tiene alla salute dei propri bambini?”.

Luigi di Maio, lo sappiamo, è celibe. Ma Alessandro Di Battista, al contrario, non cessa di mettere al centro del suo racconto personale il piccolo Andrea, nato nel novembre 2017, che durante tutta la campagna elettorale era ovunque: campeggiava nei ritratti postati su Instagram, era il protagonista delle riflessioni fiume del tribuno regalate su Facebook, compariva senza motivo apparente nei discorsi pubblici. “Essere padre cambia la vostra vita” ripeteva il Dibba, come fosse il primo padre impegnato in politica della storia d’Italia. Danilo Toninelli, ministro delle Infrastrutture al centro delle polemiche su Genova e sui respingimenti delle navi che arrivano nei porti di sua competenza, ha spiegato che il destino dei migranti “lo tocca come uomo e come padre”, ma che l’Aquarius poteva essere accolta meglio in Spagna.

Il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, si è presentato alla stampa e agli italiani come l’avvocato del popolo, certo, ma ha subito aggiunto, sia mai ci sfuggisse, che avrebbe diretto l’azione di governo come…. “un buon padre di famiglia!”. Per rendere il tutto più giuridico, Conte è andato persino oltre, utilizzando l’espressione latina: “In ogni famiglia il pater familias ha la responsabilità del bilancio economico. Io mi sento il pater familias dello Stato, ho a cuore la stabilità dei conti pubblici”.

I figli non li fanno mica soltanto i populisti. Matteo Renzi nel suo primo discorso di opposizione al Senato, non ha perso tempo e si è subito rivolto a Matteo Salvini “guardandolo negli occhi, da padre a padre”.

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Europa

Qualcuno dica perchè dobbiamo rimanere nell’Euro

Comincio con un’ammissione: capisco poco di economia, accademicamente intesa. Le mie nozioni sono limitate a ciò che leggo sui giornali (principalmente online), e vista la vastità e complessità della materia non saranno di certo eccezionalmente accurate. Aggiungo che sono stato più volte definito come “agente antieconomico” da amici che studiano economia. So di non sapere insomma, ma questo post ha un senso proprio perché si parte da questa premessa.

Posso dire che mi sta parecchio interessando il dibattito sull’Euro, forse anche per lo spazio che i media stanno dando agli antagonisti della moneta unica. Mi pare tra l’altro  che questa componente si sia parecchio ingrossata rispetto alle scorse campagne elettorali: il sentimento no euro è forte in larghi strati della società e da quello che ho potuto capire è presente anche in ambito accademico. Il primo che mi viene in mente è Paul Krugman, editorialista del New York Times e premio nobel. Tra gli economisti nostrani, negli ultimi tempi si segnala tale Bagnai, economista piuttosto netto (anzi, direi molto aggressivo) nel criticare la moneta unica.

La motivazione comune in Italia (ma anche in Francia, andando a guardare come strilla Marine Le Pen), è legata alla possibilità di svalutare, una volta ripreso il controllo della moneta. La nostra economia, si dice, non è più competitiva da quando abbiamo perso la possibilità di svalutare per sostenere le nostre esportazioni. In poche parole, siccome i tuoi prodotti non sono competitivi di per sé, rendi conveniente comprarli ma non intervieni sulle cause strutturali (facilmente ricercabili in costo dell’energia, costo del lavoro, pressione fiscale, peso eccessivo della burocrazia).

In questo contesto va però considerata la sensazione del consumatore medio, e dunque anche la mia per ciò che conta, in termini di potere d’acquisto tra euro e lira. Nel 2002 avevo 11 anni, per forza di cose ricordo poco di quel periodo, e per l’età che avevo non mi capitava spesso di utilizzare denaro. Però alcune situazioni le ricordo molto bene e posso fare degli esempi. Oggi un caffè al banco costa più o meno 1 euro; nel 2001 difficilmente un espresso al banco lo si pagava 2000 lire. Una partita di calcetto, a Roma o a Napoli indifferentemente, costa non meno di 7,50 euro se si gioca in un campo decente in erba sintetica; mi ricordo perfettamente che mia madre mi dava 10mila lire quando andavo ai campetti, con quella banconota non solo riuscivo a pagare il campo, ma mi ci compravo anche il Gatorade.

Ancora, i costi dei libri. Prendo ad esempio un libro che quando è arrivato in Italia era praticamente già un best seller mondiale: Harry Potter e la Pietra Filosofale. Secondo una recensione di Pietro Citati su Repubblica, datata 13/12/2001, il costo di lancio era 28000 lire, pari ad euro 14,46. Economico, direte voi, ma sono passati 13 anni, c’è l’inflazione e un differente potere d’acquisto, dunque le cifre vanno rivalutate. Sono andato sul sito dell’Istat e ho inserito i parametri: risultato? 28000 lire del dicembre 2001 (un mese prima dell’entrata nell’euro) equivalgono oggi a 35000 lire pari ad euro 18,38. A me pare ancora economico, considerando che quand’è uscito nel 2004, Il Codice Da Vinci di Dan Brown, altro best seller da 80 milioni di copie, costava già 18,60 euro pari a 22,50 euro odierni. Inferno, dello stesso autore, uscito in Italia nel 2013, veniva venduto a 25 euro. Dunque il prezzo di un fenomeno editoriale passa dai 18,38 euro rivalutati del 2002 a 25 euro del 2013, un rincaro non da poco.

Ora, di sicuro i prezzi di molti altri beni o servizi sono rimasti stabili. Ad esempio il cinema nel 1999 costava in media 13mila lire (17700 rivalutate ad oggi, cioè 9,15 euro), chi l’avrebbe mai detto? Ma la percezione comune è che sia aumentato tutto sensibilmente, se non proprio raddoppiato. Il fantomatico consumatore medio è , val la pena ricordarlo,  anche colui che si reca alle urne e ascolta in televisione e nelle piazze le rivendicazioni dei partiti contrari all’euro. E se il fronte no euro è così forte è anche dovuto (oltre alla facilità e semplificazione del messaggio) all’incapacità di riuscire a spiegare i vantaggi e l’inevitabilità della moneta unica. Insomma, domanda da un milione di dollari, perchè nell’euro dobbiamo rimanerci?

Dal canto mio qualche riflessione l’ho fatta, e sempre ricordando di essere l’agente antieconomico di cui sopra, sono arrivato a delle conclusioni, utilizzando semplicemente la logica. Mettiamo caso domani l’Italia esca dall’euro, io Francesco Maselli, consumatore medio, cosa faccio? La prima cosa che mi viene in mente è: andare a ritirare ogni singolo euro che ho in banca, in modo tale da sfruttare la valuta più forte una volta completata la transizione (d’altronde svalutiamo proprio per avere una moneta più debole no?). È un atteggiamento del tutto razionale, magari frutto di una serie di convinzioni sbagliate e di paure infondate, potrebbe ribattere un sostenitore del ritorno alla moneta nazionale. Ma proprio perchè gli agenti economici agiscono generalmente in maniera razionale, è uno scenario altamente probabile. E dunque come la mettiamo con l’assalto agli sportelli? Chiudiamo le banche? Impediamo la circolazione del contante?

Altra considerazione, frutto ancora della pura e semplice logica. L’Italia non possiede materie prime rilevanti. Deve importarle. Siamo dunque totalmente dipendenti energeticamente da altri paesi. Ma questi altri paesi sono allo stesso modo dipendenti da noi che i loro beni li compriamo, si può ribattere, perché il venditore non può prescindere dal compratore (tutt’al più ci si può ricattare a vicenda, con esiti quasi sempre neutri). Mi dispiace avvertire che nell’anno di grazia 2014 non è più così, soprattutto per quanto riguarda il mercato energetico. In proposito va menzionato l’ultimo accordo sulle forniture di gas tra Russia e Cina. Perché mai chi ci vende oggi l’energia ad un determinato prezzo, stipulato in euro, dovrebbe abbassare il prezzo in virtù del nostro passaggio alla lira, se ha un altro mercato dove andare a vendere? E, domanda conseguente: siccome lo sconto non ci verrà concesso, con una moneta più debole, siamo in grado di permetterci l’energia allo stesso prezzo? O avremo un’esplosione del costo delle nostre bollette e dei nostri beni di consumo?

In questa campagna elettorale di temi europei s’è parlato pochissimo, se lasciamo da parte la divisione manichea tra euro si ed euro no. Ormai è finita, è andata così. Ma siccome il mondo non finisce domenica sera, ed anzi lunedì comincia la nuova legislatura del Parlamento Europeo, sarebbe bene che le forze politiche che si autodefiniscono europeiste comincino a spiegare anche perchè lo sono. È difficile, come sostiene Luca Sofri, peraltro direttore del Post. L’Europa è un argomento noioso persino per noi che ne siamo entusiasti, tant’è che finora il messaggio più forte che i partiti europeisti sono stati in grado di far passare è stato “l’Euro è un punto di non ritorno, necessario, a cui non ci sono alternative”.

Nell’era della comunicazione 2.0 mi pare un po’ poco, soprattutto contro il messaggio opposto efficacissimo e auto-assolutorio. In un paese dove mai nessuno si prende le proprie responsabilità, la nostra classe dirigente, da lunedì mattina alle ore 8.00 dovrebbe iniziare a spiegarci, senza l’assillo della campagna elettorale, perché stiamo in Europa e perchè la moneta Euro rappresenta un’opportunità immensa.

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PD e dintorni

Sul rapporto tra PD e sindacato

Una delle maggiori novità portate da Matteo Renzi all’interno del PD è senza dubbio il nuovo rapporto tra la sinistra ed il suo sindacato storico di riferimento: la CGIL. Nelle sue uscite pubbliche, il sindaco di Firenze ha sottolineato più volte che i partiti politici ed i sindacati hanno ruoli e obiettivi diversi, ed ha fatto intendere che così come il PD si rinnoverà decisamente, sarà compito del sindacato fare la stessa cosa. Non ha parlato di attuazione dell’art. 39 della Costituzione, ma quasi, perché un’eventuale legge in materia di rappresentanza sindacale non potrebbe prescindere dal dettato costituzionale.

E’ in questo contesto che matura l’incontro con il segretario della FIOM Maurizio Landini, sempre molto critico nei confronti dell’ormai Segretario, ma anche molto curioso, per il nuovo corso che l’idea di leadership sta prendendo a sinistra. Ed in effetti avvisaglie di un avvicinamento tra i due c’erano anche prima delle primarie, anche grazie ai contrasti tra Landini e la Camusso, spesso protagonista di attacchi frontali nei confronti del Sindaco, su tutti quell’intervista ad “in mezz’ora” proprio durante lo svolgimento delle primarie che videro prevalere Pierluigi Bersani. Invasioni di campo ampiamente previste nei confronti di chi ha posto al centro del proprio programma politico anche la rottamazione del collateralismo PCI-PDS-DS-PD/CGIL.

Il dato di fatto è che negli ultimi vent’anni,, non solo la disoccupazione è cresciuta a dismisura (certo in massima parte a causa della congiuntura economica), ma i modelli contrattuali della nostra legislazione sono entrati in crisi, perché espressione di un modello di mercato del lavoro molto rigido e tendenzialmente protezionista. Stando così le cose il sindacato ha rivolto tutte le sue forze a tutelare i già tutelati, disinteressandosi di chi invece iniziava a far fatica ad entrare nel mercato del lavoro, o magari riusciva ad entrarvi ma senza ottenere uno straccio di tutela o diritto. Per non parlare di rappresentanza (sia politica che sindacale).

E infatti andando a guardare i numeri forniti dagli stessi sindacati si evince chiaramente che tipo di lavoratori è spinto a tesserarsi. La CGIL conta di 5.712.000 di tesserati, la CISL 4.442.000 mentre la UIL ne ha 2.196.000. In un paese che conta 60 milioni di abitanti, averne più di un sesto iscritto ad un sindacato non è poco. Però il dato che salta subito agli occhi è quello riguardante la percentuale di pensionati rispetto al totale, nella CGIL la percentuale è del 52%, nella UIL il 30% e nella CISL il 46%. E’ fisiologico dunque, che i sindacati cerchino di difendere rendite di posizione, scaricando i costi della contrattazione collettiva sui precari e su chi non è sindacalizzato.

E’ fisiologico ma non più sostenibile, ed è proprio questa la battaglia che sta conducendo Maurizio Landini. Se il sindacato non cambia verso, sarà condannato all’irrilevanza, oltre ad essere visto come una forza conservativa e poco attenta alle fasce deboli della nostra società. Cose che per la verità stanno già accadendo. Ora che al Nazareno c’è Renzi, e non un segretario “amico” (ed anzi spesso in sudditanza psicologica), la CGIL avrà più difficoltà a trovare sponde per la sua politica improntata al tener tutto così com’è. E forse ci si accorgerà che c’è spazio per una nuova classe dirigente e per una nuova forma di rappresentanza anche all’interno del sindacato.

Altrimenti semplicemente i lavoratori andranno a rivolgersi altrove.

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