Politica

Il lockdown non è un contratto

Oggi sul Corriere della Sera c’è un retroscena interessante sulla strategia del governo per la fase due. Gli scienziati che consigliano l’esecutivo (chissà chi tra le 450 persone delle 15 task force costituite), avrebbero suggerito al presidente del Consiglio Giuseppe Conte di “sottoporre un campione di cittadini a un test psicologico per verificare quanto tempo ancora siano in grado di sopportare il lockdown”.

L’aneddoto, che probabilmente rimarrà tale (difficile immaginare un test del genere), segnala un problema più generale che riguarda il modo in cui Conte e i suoi ministri stanno affrontando il problema. L’esecutivo non considera il lockdown come una parte di una strategia più ampia per contenere il virus e poi far ripartire lentamente il paese.

Il lockdown è la sola strategia. Tanto che per decidere della sua estensione o meno non ci si basa sulla sua efficacia, ma sulla capacità di sopportazione dei cittadini, privati da molto tempo di gran parte della loro libertà. Stiamo chiusi in casa perché bisogna diminuire la pressione sulle terapie intensive, ma anche per prendere tempo e consentire di allestire un relativo ritorno alla normalità.

Relativo ritorno su cui ci giungono informazioni contraddittorie, posizioni dei singoli presidenti di regione in conflitto tra loro, dichiarazioni sopra le righe di consiglieri del governo che passano il loro tempo sui social media. Tralasciamo per carità di patria le citazioni di Winston Churchill e altre amenità piuttosto insultanti.

Se ci pensiamo, è la conseguenza di una questione ancor più grande: Giuseppe Conte è a palazzo Chigi proprio perché non ha mai tratteggiato un’idea precisa di paese, per essere stato in grado di guidare senza batter ciglio due governi con programmi e ragione sociale differenti – tranne che sulla (non) gestione dei flussi migratori, su quello sono identici – per aver interpretato il suo ruolo come quello di un conciliatore, un avvocato che deve mediare tra più parti.

Parti ormai allo sbando (Movimento 5 Stelle), o poco capaci in questo momento (Partito democratico) di imprimere una direzione chiara al paese. Se la strada tratteggiata dall’alleanza Zingaretti/Di Maio era incomprensibile prima della crisi, non può che esserlo anche oggi, dove alla scarsa visione politica si affianca una situazione drammatica e complessa, su cui anche il migliore dei governi avrebbe un margine di manovra molto ristretto.

In sostanza, e lo si dice da tempo, manca la politica. È solo che in tempi eccezionali la mancanza si fa più forte.

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