Da un paio di settimane mi sono accorto dell’esistenza di un deputato britannico, conservatore, che si candida come leader del suo partito e quindi come prossimo primo ministro.
Secondo me la sua storia e i suoi modi insegnano qualcosa anche a noi.
Rory Stewart è pura élite britannica, nato da famiglia scozzese, padre diplomatico e alto ufficiale dell’intelligence, ha studiato tra Eton e Oxford. Si racconta parte della sua storia in un pezzo pazzesco del New Yorker del 2010, che ci aveva visto lungo, e con interviste allo stesso Rory Stewart, alla madre, al padre e ad amici e rivali ne ricostruisce il profilo. Élite, certo, ma consapevole del proprio ruolo e soprattutto al servizio del proprio paese nel mondo: Stewart ha rappresentato (in varie vesti) il Regno Unito in Indonesia, Ex Jugoslavia, Iraq, Afghanistan e altri posti. Per questo riesce a stemperare il lato snob della sua educazione/istruzione: ha visto il mondo, si è messo in gioco molto al di là delle situazioni confortevoli in cui la tanto vituperata upper class occidentale si trova quando intraprende esperienze all’estero.
Una delle caratteristiche di Stewart è che pare essere genuino e integro nel difendere le sue idee. Intervistato da LBC, spiega perché, secondo lui, l’essenza della politica è parlare e incontrare tutti. Il giornalista lo incalza e a un certo punto gli chiede: “Incontreresti l’Isis?” Stewart ci pensa un secondo, sa che la risposta potrebbe danneggiarlo o essere strumentalizzata, e poi risponde, ovviamente prestandosi alla provocazione: “Mi incontro con tutti, ero in Iraq e ho incontrato persone che stavano letteralmente sparando contro il mio accampamento. Questo è quello che faccio, incontro tutti”. Insomma, il primo messaggio è “apertura”, il secondo (interpreto) è: “Se sono consapevole delle mie idee non ho paura dei confronti”.
Parte della campagna di Stewart si basa proprio su questo, l’hashtag è #RoryWalks, e mostra il deputato mentre cammina e incontra i cittadini in tutto il paese. La campagna richiama anche uno dei suoi bestseller, scritto prima di candidarsi tra i Tories. “The places in between”, racconta il suo viaggio, a piedi, quasi sempre da solo, in Afghanistan (e poi fino in India), dopo i primi mesi della campagna militare di Stati Uniti e Regno Unito, nel gennaio 2002. Il libro ha venduto moltissimo, ha vinto premi, ne ha messo in luce la capacità narrativa. Ha votato per il remain al referendum su Brexit, ma ha accettato il risultato e adesso è partigiano di un accordo che provi a tenere tutto insieme, senza mentire ai britannici. Ha spiegato come la vede in un editoriale sul Guardian, molto apprezzato.
Quando dico che questa storia racconta qualcosa anche a noi, intendo che la via dei radicali di sinistra non è l’unica possibile per cercare di costruire un’alternativa al populismo e al sovranismo. Non c’è soltanto l’aggressività di Alexandria Ocasio-Cortez da un lato e il bacio del rosario di Salvini dall’altro. Così come non esiste soltanto la strategia di Emmanuel Macron, cioè la santa alleanza di tutte le forze ragionevoli per battere l’unica alternativa che in questo momento il sistema francese vede in campo: Marine Le Pen.
Si può essere di destra, conservatori, non entusiasti di andare verso un superstato europeo, senza per questo diventare dei democratici illiberali come Orbán. Si può essere molto lontani dai sovranisti e allo stesso tempo non essere impauriti da categorie come “identità” o “fermezza”. Si può essere orgogliosi di far parte della civiltà occidentale, fieri di vivere nel più bel continente al mondo, dove la libertà viene prima di ogni cosa, senza essere razzisti o provinciali.
Rory Stewart sarà minoritario e non vincerà la leadership? Può darsi. Ma qualche appunto su come fa politica lo possiamo prendere anche qui da noi, che male non fa.