Europa

Tutti europeisti?

Mario Draghi ci insegnerà a discutere in modo normale di Europa?

Photo by Francesca Tirico on Unsplash

L’Italia è da quasi dieci anni ostaggio di due narrazioni contrapposte, l’una pericolosa, l’altra ingenua, che le impediscono di fare passi in avanti nel suo rapporto con l’Unione europea.

Da un lato Matteo Salvini, Claudio Borghi, Alberto Bagnai, sostengono che l’unico modo per recuperare sovranità è uscire dall’Unione europea e dall’euro per «fare da soli», cioè stampare moneta. 

Dall’altro il Partito democratico e raggruppamenti vari come Più Europa portano avanti un europeismo acritico, tanto da definirlo nei giorni scorsi come l’architrave del nuovo governo (e cercare in questo modo di escludere Salvini). Come se scegliere di stare nell’Unione europea fosse un fine di per sé, e non un dato di fatto. 

Salvini ha fatto un regalo enorme ai nostri europeisti: ha consentito loro di non elaborare una propria visione. 

Dire «noi non vogliamo uscire» è semplicissimo, non serve dire altro, e anzi permette impunemente di parlare di Stati Uniti d’Europa, una formula senza alcun senso logico ripetuta più volte da Matteo Renzi, il segretario del Pd più longevo.

Tutto questo ci ha fatto perdere tempo, mentre altre opinioni pubbliche riflettevano in modo più strutturato e approfondito sul proprio ruolo in Europa.

Non sappiamo se la conversione di Matteo Salvini sia genuina, probabilmente non lo è, visto che Claudio Borghi ancora oggi ripeteva su Twitter che «uscire dall’euro è una certezza, non una speranza». E però può provocare, lentamente, la marginalizzazione di opinioni come questa.

Voglio dire, Luigi Di Maio è passato dal raccogliere firme per uscire dall’euro e chiedere l’impeachment per Sergio Mattarella, a sostenere senza porre condizioni un governo guidato dall’ex presidente della Bce per seguire la strada tracciata «con saggezza» dal presidente della Repubblica.

Nessuno gliene chiede più conto e in fin dei conti è anche giusto così: se quelle idee infantili abbandonano il dibattito pubblico ne guadagniamo tutti. Anche perché, marginalizzate le idee, in modo fisiologico scompariranno anche questi personaggi.

L’alternativa è la bancarotta, intellettuale e finanziaria.

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Diritto

Senza la libertà

Quindi ci siamo arrivati: a partire dal 4 maggio il governo deciderà chi possiamo incontrare e chi no, una privazione della libertà personale mai raggiunta prima nella storia della Repubblica, sancita da una nuova fonte del diritto, le involute FAQ di Palazzo Chigi.

L’ambito cui può riferirsi la dizione “congiunti” può indirettamente ricavarsi, sistematicamente, dalle norme sulla parentela e affinità, nonché dalla giurisprudenza in tema di responsabilità civile. Alla luce di questi riferimenti, deve ritenersi che i “congiunti” cui fa riferimento il DPCM ricomprendano: i coniugi, i partner conviventi, i partner delle unioni civili, le persone che sono legate da uno stabile legame affettivo, nonché i parenti fino al sesto grado (come, per esempio, i figli dei cugini tra loro) e gli affini fino al quarto grado (come, per esempio, i cugini del coniuge).

L’ennesima compressione di un diritto costituzionale trae legittimità da provvedimenti che non ne hanno alcuna: le ricordate domande frequenti che possono essere consultate sul sito del governo (e quindi cambiate dalla sera alla mattina senza colpo ferire), e da fonti di Palazzo Chigi, che spiegano ulteriormente come «gli amici non rientrano nella categoria di stabile legame affettivo».

Ora, è inevitabile provare a interpretare questo assurdo modo di procedere alla luce di quanto è accaduto negli ultimi mesi, peraltro ampiamente preparati dall’imbarbarimento culturale che ha vissuto l’Italia dall’inizio di questo secolo.

La difesa della libertà, delicatissima e niente affatto scontata, è diventata in questi mesi il tratto distintivo di seccatori incuranti della sofferenza causata dal virus. La salute, elevata a primo e unico diritto degno di essere protetto e affermato, eclissa il resto dell’architettura che rende tale la società italiana ed europea. Di contro, le preoccupazioni sul rispetto dei diritti fondamentali sono derubricate a capricci fuori dal tempo di un piccolo gruppo di irriducibili.

Durante gli anni Settanta, quando Simon Leys criticava duramente il regime maoista, gli veniva risposto: «Lei critica la Cina di Mao, ma nella Cina di Mao tutti hanno da mangiare. Riuscire a sfamarsi e a vivere non è il primo dei diritti dell’uomo?». L’intellettuale belga ribatteva: « Che disperazione un mondo dove le statue che onorano la libertà sono sostituite da iscrizioni come: “Ai panifici, l’umanità riconoscente”». 

Dovrebbe dunque essere ancora consentito poter dissentire con chi vorrebbe una società dove si ergeranno statue con l’iscrizione: «Alla quarantena, l’umanità riconoscente». 

La derisione della libertà non è una novità portata dal coronavirus; basti pensare alla continua richiesta di leggi repressive per contrastare il terrorismo e i reati contro la pubblica amministrazione o l’introduzione di sistemi di intercettazione invasivi come il trojan, accompagnati da cantori delle manette che ripetono in talk show di impostazione medievale «io non ho nulla da nascondere». Come se il nostro diritto penale, di retaggio fascista e durissimo nell’applicazione delle pene detentive, non fosse in grado di mantenere la pace sociale. 

Questo perché la società italiana ha in realtà deciso di non sopportare più il male ed estirparlo a furia di provvedimenti repressivi, aumento delle detenzioni, processi sommari a mezzo stampa, creazione di nuovi reati volti a calmare il desiderio di sicurezza del popolo. 

Il dibattito sull’app di tracciamento, drammaticamente riassunto da autorevoli ministri e illustri giornalisti nella seguente formula «date i vostri dati a Facebook e vi lamentate di darli allo Stato», segnala, ancora una volta, la scomparsa dell’amore per le libertà fondamentali, date per scontate e comunque sacrificabili in nome della preoccupazione del momento. È utile ricordare che Facebook non possiede il monopolio della forza.

La fiducia cieca nella capacità taumaturgica e benevola dello Stato è emblematica di questa condizione di sudditanza: ci ha protetto chiedendoci di restare a casa e ora continuerà a proteggerci tracciando i nostri movimenti «per il nostro bene».

In questo senso è utile notare che il progetto finale dell’applicazione Immuni, seppure ancora piuttosto vago e di efficacia dubbia, è molto meno invasivo di quanto inizialmente annunciato dal governo e dai suoi consulenti, che promettevano di importare il modello sudcoreano, proprio grazie ai rilievi e le preoccupazioni sollevate da una parte dell’opinione pubblica. 

Il dramma è stato opporre la sicurezza, in questo caso declinata nella sua variante “tutela della salute”, e la libertà. Quando si arriva a contrapporre i due diritti in modo artificiale non può esserci bilanciamento: vince la sicurezza, perde la libertà. A questo abbiamo assistito e a questo rischiamo di assistere nei prossimi mesi, perché uscire dalla quarantena sarà molto più complicato che entrarvi. 

Il punto non è sminuire la salute come diritto, peraltro garantito costituzionalmente ed esplicitamente tutelato attraverso le limitazioni alla libertà. Il punto è chiedersi se le limitazioni sono proporzionali, criterio principe di ogni bilanciamento tra opposti diritti fondamentali. Lo sono?

È oggi proporzionale adottare le stessi misure di privazione delle libertà costituzionali in Lombardia e in Puglia o Calabria? Dov’è la proporzionalità del divieto di andare a correre lontano dalla propria casa se il suo fondamento è «dare il senso di un regime molto stringente»  come sostenuto dal sottosegretario alla presidenza della regione Emilia-Romagna, Davide Baruffi? 

In che modo può essere legittimo un potere che tratta i cittadini come pecore incapaci di intendere e di volere, come la sindaca di Roma che, introducendo la Fase 2, ammonisce la popolazione: «Rispettate le regole, questo ci consentirà di tenere i parchi aperti, altrimenti dovremo emanare un’ordinanza con la quale li chiudiamo. Diciamo che è una concessione (corsivo mio) che ci viene fatta dalla presidenza del Consiglio dei ministri. Ma dobbiamo meritarcela».

Dov’è la legittimità democratica delle forze incaricate della repressione quando le leggi concedono, indicando ciò che si intende permettere e non ciò che è vietato, ribaltando secoli di civiltà giuridica? Dov’è la legittimità di leggi talmente vaghe da sconfinare nell’arbitrio di chi deve farle rispettare? È accettabile che la nuova fonte del diritto in Italia siano le FAQ di Palazzo Chigi e del ministero dell’Interno?

È considerabile come degno di un paese civile consentire al governo di decidere, nel momento in cui il divieto di spostamento è alleggerito, chi è prioritario per noi vedere? Con il paradosso di consentire l’incontro con gli «affini fino al quarto grado (come, per esempio, i cugini del coniuge)» ma non con gli amici più stretti?

Abbiamo assistito a una sorta di estasi securitaria, a un governo che ha chiesto moltissimo al corpo sociale, consapevole del consenso generato dall’emergenza, e ha compresso le libertà fondamentali in modo molto spesso irrazionale e dannoso.

Si capisce anche perché: la libertà implica responsabilità, errori, contraddizioni. Sono i suoi naturali compagni di viaggio. La tendenza naturale del governo è provare a limitarli e lo si comprende, perché la sua priorità è proteggere i cittadini e spesso la libertà è un intralcio. Ma per fortuna le Repubbliche non sono il regno della polizia amministrativa, e compito dell’opinione pubblica è farlo notare.

Quando si tratta di restringere le libertà in nome della sicurezza, la prima domanda che bisogna porsi è se le restrizioni sono efficaci. E se nessuno contesta la quarantena in sé e la necessità di limitare le interazioni sociali per evitare la saturazione dei nostri ospedali, non può essere impedito dibattere sull’estensione (temporale e repressiva) delle misure stesse.

Non c’è stato alcun dibattito, perché chi ha provato a interrogarsi sull’opportunità e l’efficacia delle disposizioni è stato accusato di preparare il terreno a Matteo Salvini, lavorare per Confindustria, spezzare l’unità nazionale, seminare il panico.

Il 25 aprile Mattia Feltri ha ragionato sul paradosso che stiamo vivendo: «Settantacinque anni fa c’era chi rischiava la vita per la libertà, oggi c’è chi rischia la libertà per la vita». Si dice: facile parlare di libertà quando nessuna persona a voi cara è toccata dal virus, che ha già ucciso quasi 30mila persone soltanto in Italia. Non è facile, ma è doveroso.

La foto è un estratto da «La libertà degli antichi, paragonata a quella dei moderni» di Benjamin Constant («De la liberté des Anciens comparée à celle des Modernes»)

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Politica

Il lockdown non è un contratto

Oggi sul Corriere della Sera c’è un retroscena interessante sulla strategia del governo per la fase due. Gli scienziati che consigliano l’esecutivo (chissà chi tra le 450 persone delle 15 task force costituite), avrebbero suggerito al presidente del Consiglio Giuseppe Conte di “sottoporre un campione di cittadini a un test psicologico per verificare quanto tempo ancora siano in grado di sopportare il lockdown”.

L’aneddoto, che probabilmente rimarrà tale (difficile immaginare un test del genere), segnala un problema più generale che riguarda il modo in cui Conte e i suoi ministri stanno affrontando il problema. L’esecutivo non considera il lockdown come una parte di una strategia più ampia per contenere il virus e poi far ripartire lentamente il paese.

Il lockdown è la sola strategia. Tanto che per decidere della sua estensione o meno non ci si basa sulla sua efficacia, ma sulla capacità di sopportazione dei cittadini, privati da molto tempo di gran parte della loro libertà. Stiamo chiusi in casa perché bisogna diminuire la pressione sulle terapie intensive, ma anche per prendere tempo e consentire di allestire un relativo ritorno alla normalità.

Relativo ritorno su cui ci giungono informazioni contraddittorie, posizioni dei singoli presidenti di regione in conflitto tra loro, dichiarazioni sopra le righe di consiglieri del governo che passano il loro tempo sui social media. Tralasciamo per carità di patria le citazioni di Winston Churchill e altre amenità piuttosto insultanti.

Se ci pensiamo, è la conseguenza di una questione ancor più grande: Giuseppe Conte è a palazzo Chigi proprio perché non ha mai tratteggiato un’idea precisa di paese, per essere stato in grado di guidare senza batter ciglio due governi con programmi e ragione sociale differenti – tranne che sulla (non) gestione dei flussi migratori, su quello sono identici – per aver interpretato il suo ruolo come quello di un conciliatore, un avvocato che deve mediare tra più parti.

Parti ormai allo sbando (Movimento 5 Stelle), o poco capaci in questo momento (Partito democratico) di imprimere una direzione chiara al paese. Se la strada tratteggiata dall’alleanza Zingaretti/Di Maio era incomprensibile prima della crisi, non può che esserlo anche oggi, dove alla scarsa visione politica si affianca una situazione drammatica e complessa, su cui anche il migliore dei governi avrebbe un margine di manovra molto ristretto.

In sostanza, e lo si dice da tempo, manca la politica. È solo che in tempi eccezionali la mancanza si fa più forte.

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Politica

Pensare l’emergenza

C’è un libricino illuminante scritto da un giurista americano, Bruce Ackerman, che si chiama “The Emergency Constitution”. È un saggio pubblicato dalla Yale Law School in cui l’autore sostiene che le costituzioni delle democrazie liberali non sono pronte ad affrontare le emergenze, e c’è quindi bisogno di prepararsi in anticipo.
Meglio avere procedure chiare per quando le crisi verranno che andare a tentoni quando sono già arrivate. La riflessione verte sulla minaccia terroristica, Ackerman scrive nel 2004 e il ricordo dell’attacco alle torri gemelle è ancora molto vivido, ma la sua riflessione può aiutarci a ragionare oggi.
Esempio: uno dei primi temi affrontati da Ackerman è se sia possibile catalogare il terrorismo come “guerra”. La risposta è no, perché questo consegnerebbe poteri sproporzionati al governo rispetto alla minaccia che deve affrontare. Vale lo stesso per il virus. Utilizziamo la parola guerra perché è l’unica esperienza totalizzante di cui abbiamo memoria; non perché vissuta, ma perché tramandata da testimoni oculari alla maggior parte di noi e ancora “fresca”. D’altronde le società sono fatte più da morti che da vivi.
Naturalmente il contesto che viviamo oggi è diverso da quello post 9/11. Le sfide sono diverse. C’è un solo tratto in comune: l’emergenza e la possibilità che questa comporti restrizioni delle nostre libertà che permangano quando tutto sarà finito. Anche perché: chi ci garantisce che lo sarà?
Ecco perché chi ha il lusso di non dover affrontare concretamente i problemi sanitari e logistici può cominciare a riflettere. Tempo ne abbiamo, mi pare.
Ciò non implica intervenire immediatamente, o anche a brevissimo termine, per costituzionalizzare procedure emergenziali che consentano di affrontare lo scoppio e le conseguenze di un’epidemia. Sarebbe addirittura controproducente. Come scriveva Ackerman, possiamo però ragionarci: “il pensiero costituzionale non ha altra scelta che discutere, con i suoi ritmi. È il momento di buttare la palla nel campo della speculazione legale e invitare altri a giocare il gioco. Forse ne verrà fuori qualcosa di buono”.
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Politica

Domande serie e pacate al governo che non risponde

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È un momento complicato, fare polemiche inutili non serve a niente, anche se il governo sembra piuttosto insensibile alla necessità di evitare strafalcioni – non dico errori, perché su quelli siamo tutti abbastanza indulgenti – come la sceneggiata con la mascherina fasulla del ministro Boccia.
Ciò non vuol dire che porsi delle domande sull’efficacia delle misure annunciate dal presidente del Consiglio, sulla loro effettività e soprattutto sul modo in cui vengono comunicate, sia irresponsabile. Il ruolo dei media resta quello di informare i cittadini. Ma in questa fase comprende, più di altre volte, interrogare chi governa e pretendere che spieghi le proprie scelte. Le domande, poste con pacatezza e pertinenza (per quanto possiamo), servono a tutti.
Se qualcuno è in difficoltà, e il governo evidentemente lo è (chi non lo sarebbe?), urlargli contro serve soltanto a mandarlo nel pallone. Non sempre è facile, e bisogna stare molto attenti a evitare di oltrepassare il limite e contribuire così alla distruzione della fiducia tra cittadini e istituzioni. Tuttavia non stiamo parlando di un padre che inveisce contro un bambino che non riesce ad andare in bici senza rotelle. Chi si trova in difficoltà è al governo, e ha anche delle responsabilità che ha assunto volontariamente, non può quindi sottrarsi alla necessità di spiegare e motivare le proprie decisioni.
-Cominciamo dalla forma. È necessario annunciare al Paese un discorso via Facebook, ripreso a reti televisive quasi unificate, a serata inoltrata con pochi minuti di anticipo, e poi presentarsi in ritardo tenendo tutti in sospeso? Aiuta a costruire un rapporto di fiducia tra istituzioni e cittadini? Per quello che sappiamo comunica soltanto poco rispetto per gli altri; se invece è successo altro che giustifica il ritardo, sarebbe giusto spiegarlo. Se non si spiega nulla, è lecito avere dubbi sulla statura di chi guida il paese.
-Perché Giuseppe Conte annuncia misure che ancora non esistono e sono in via di definizione? Come mai la lista delle attività produttive che resteranno aperte non è pubblica, così come non è pubblico il decreto? Non era pubblico ieri sera, né stamattina a mezzogiorno. Se sono un imprenditore come mi devo comportare?
-Come mai il presidente del Consiglio non ha ritenuto giusto spiegare perché si prendono determinate misure, come sono state decise, cosa si aspetta l’esecutivo dalla loro implementazione, come mai vengono prese prima della scadenza di due settimane dal lockdown precedente? Non funziona? Si aspettavano dei dati che non sono arrivati? C’è un piano straordinario per sostenere le aziende?
-Perché la decisione di chiudere tutte le attività produttive del paese arriva a poche ore da un provvedimento molto simile varato dalla Lombardia e dal Piemonte? Il governo ha “inseguito” un potere locale? Erano misure concordate? Come mai ogni regione continua a fare ciò che vuole?
-Per quanto tempo il governo deciderà da solo, senza controllo del Parlamento, che ormai è esautorato e informato di tutto a mezzo Facebook (nemmeno a mezzo stampa, visto che appunto le comunicazioni avvengono via social)? Si rendono conto, a Palazzo Chigi, che questo modo di procedere non può essere eterno? Se l’emergenza durerà mesi entriamo in una nuova normalità che normale non è. Bisogna essere cauti.
-Vedo che consulenti del governo dicono ai giornali che “siamo pronti” a seguire il modello sudcoreano: molti tamponi e tracciamento digitale dei contagiati. Vogliamo forse farlo senza un dibattito appropriato? Abbiamo le capacità di fare test a tappeto? Abbiamo un’infrastruttura tecnologica in grado di fare questo monitoraggio su larga scala? Molti di noi che parlano con medici in Lombardia e altre regioni colpite hanno gli stessi riscontri: il tampone non viene fatto nemmeno a chi ha sintomi. Come pensano di implementare il modello sudcoreano se le cose stanno così?
Ecco, non sono polemiche, sono questioni che riguardano tutti. Sono domande che è importante porre a un governo che ha deciso di comprimere le nostre libertà come mai accaduto prima, e ha bisogno del nostro consenso per far sì che le misure funzionino. Così, a breve, rischia di non averlo più.
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PD e dintorni, Politica

Matteo Renzi ha un enorme problema di credibilità

Matteo Renzi ha un enorme problema di credibilità.

È un problema che viene da lontano, dalla seconda parte della sua esperienza di governo, quando ha scommesso tutto il suo capitale politico sul referendum costituzionale e dopo averlo perso ha cominciato a prendere continue decisioni contraddittorie.

Soprattutto, dà l’idea di ritenersi al di sopra di qualsiasi regola di opportunità politica e vive come una seccatura chiunque gli faccia notare che non tutto è concesso, e che ci si aspetta un determinato comportamento da chi ricopre uffici pubblici. Il fatto che il panorama politico italiano sia devastato da personaggi peggiori di lui non è una scusa e non rileva.

Da quando Renzi non è più presidente del Consiglio ha cominciato a tenere conferenze retribuite in giro per il mondo. Viene invitato come accade a moltissimi ex capi di Stato, e com’è prassi chiede e riceve compensi elevati per parlare in pubblico. Nulla di strano, se non fosse che non ha mai abbandonato la politica attiva, come invece hanno fatto i suoi omologhi, e anzi ha detto più volte che intende tornare a Palazzo Chigi. Nel frattempo, a marzo 2018, è stato eletto al Senato della Repubblica; “sono senatore semplice”, ama ripetere in pubblico.

Ora, un eletto che rappresenta il popolo italiano, un ex presidente del Consiglio con l’ambizione di tornare a occupare ruoli di governo, deve prestare attenzione ai luoghi in cui tiene le sue conferenze e alla provenienza dei soldi che percepisce per tenerle. In particolare, Matteo Renzi nel 2019 è andato in Arabia Saudita in veste di privato cittadino all’evento al Future investment initiative di Riyad, e ha ricevuto un compenso, dice, da un’organizzazione americana.

Il punto è che quando sei un senatore in carica, nulla di ciò che fai è neutro.

Un esempio aiuterà: ai diplomatici e i politici occidentali in Israele, nelle occasioni ufficiali e ufficiose, viene continuamente offerto vino prodotto sulle alture del Golan, una zona che Gerusalemme occupa dal 1967. L’occupazione non è riconosciuta dalla comunità internazionale, e quindi si cerca di evitare di bere il vino, perché vorrebbe dire implicitamente riconoscere l’occupazione.

Se si è attenti su una questione così formale, lo si deve essere anche su questioni più concrete. Nel 2018 lo stesso evento era stato disertato dagli ospiti più in vista perché era appena stato reso pubblico l’omicidio di Jamal Khashoggi, giornalista del Washington Post ucciso dai servizi sauditi nel consolato del paese in Turchia.

Quanto è credibile un politico in carica che prende alla leggera tutto questo e applica il principio “pecunia non olet”?

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Movimento 5 Stelle, PD e dintorni, Politica

Romanizzare i barbari

Il Partito Democratico è andato al governo con il Movimento 5 Stelle anche perché è convinto di “romanizzarlo”, cioè di farlo diventare un partito di sistema, parte di un’alleanza più ampia che per il momento definisce la propria identità in quanto argine a Matteo Salvini, e in quanto “vera” sinistra, finalmente libera da Matteo Renzi.

Ecco perché, fin dall’inizio della trattativa, i dirigenti dem non nascondevano il vero obiettivo del governo: trasformare i 5 stelle in un alleato politico, con cui governare comuni e regioni. Un esponente della sinistra Pd, appena uscito dalla direzione del partito tenuta alla Camera il 28 agosto, era già chiarissimo: “Se facciamo il governo poi andiamo fino in fondo, è chiaro che in questa ricomposizione politica il M5S diventa una forza di sinistra con cui siamo naturalmente alleati”. 

Oggi Luigi Di Maio, a New York da ministro degli Esteri, ha detto esplicitamente che parlerà con il Pd, perché “dobbiamo mettere fine a questo mercato delle vacche, sia dei parlamentari che passano in altri gruppi sia dei gruppi che li fanno entrare. È arrivato il momento di introdurre in Italia il vincolo di mandato”. Il leader del Movimento 5 Stelle non soltanto ha ancora una volta ribadito di voler superare uno dei principi cardine della democrazia rappresentativa, ma ha subito annunciato che il suo partito chiederà il pagamento di 100.000 euro ai parlamentari eletti con il Movimento 5 Stelle passati ad altri gruppi.

Il codice etico del Movimento 5 Stelle prevede, all’articolo 5, una sanzione per chi lascia il gruppo parlamentare. La formulazione è chiara, ed è sempre stata molto criticata e presa in giro dagli esponenti del Partito democratico.

Gli oneri per l’attività politica e le campagne elettorali sono integralmente a carico del MoVimento 5 Stelle, ciascun parlamentare, in caso di:

    • –  espulsione dal Gruppo Parlamentare del MoVimento 5 Stelle e/o dal MoVimento 5 Stelle;
    • –  abbandono del Gruppo Parlamentare del MoVimento 5 Stelle e/o iscrizione ad altro Gruppo Parlamentare;
    • –  dimissioni anticipate dalla carica non determinate da gravi ragioni personali e/o di salute ma da motivi di dissenso politico;

sarà obbligato pagare al MoVimento 5 Stelle, entro dieci giorni dalla data di accadimento di uno degli eventi sopra indicati, a titolo di penale, la somma di € 100.000,00 quale indennizzo per gli oneri sopra indicati per l’elezione del parlamentare stesso.

Saranno i barbari a essere romanizzati, o accadrà il contrario?

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Diritto, PD e dintorni, Politica

La giustizia ingiusta del Movimento 5 Stelle

Stamattina, a Omnibus, il senatore M5S Nicola Morra ha detto che la prescrizione è “l’abdicare dello Stato alla sua funzione principale, che è fare giustizia”. Temo proprio che su “fare giustizia” non ci intendiamo, e qui sta la natura giustizialista e giacobina del Movimento 5 Stelle.
 
La prescrizione non è un istituto a favore del criminale di turno. Ha la sua ragion d’essere per alcuni motivi: dopo un certo numero di anni è più complesso stabilire con certezza i fatti, i protagonisti e i testimoni possono ricordare in modo meno nitido; le prove materiali possono andare distrutte; l’imputato potrebbe aver cambiato completamente vita, natura, personalità; lo Stato non ha più interesse a mobilitare risorse per regolare dissidi che, si presume, non turbino più la pace sociale; infine è una sorta di sanzione per lo Stato, rimasto troppo a lungo inerte: non puoi risolvere il problema della lunghezza dei processi allungando all’infinito i tempi della prescrizione. È una scorciatoia e lede i diritti dell’imputato (che ha dei diritti, vi sorprenderà!).
 
Aggiungo una cosa: quest’idea che la “funzione principale” dello Stato sia “fare giustizia”, e con “fare giustizia” si intende buttare in galera la gente, è una visione distorta sia della funzione dello Stato che della giustizia. Se fare giustizia fosse la funzione principale dello Stato, esso travalicherebbe tutto il resto, calpestando di volta in volta gli ostacoli che gli si frappongono nel raggiungimento del suo obiettivo. Così lo Stato potrebbe essere “inflessibile”, ma noi saremmo meno liberi. Basta rileggere Benjamin Constant: “Ogni costituzione è un atto di sfiducia: se credessimo il potere in grado di non andare oltre le sue attribuzioni, non avremmo bisogno di costituzioni, Camere, leggi repressive”.
 
“Fare giustizia” non vuol dire sbattere in galera la gente. Lo è nella visione di chi, come Alfonso Bonafede, da ministro della Giustizia attendeva l’arresto di Cesare Battisti vestito con la divisa della polizia penitenziaria, producendo poi un video agghiacciante per vantarsene. La giustizia è un sistema delicato, dove la prigione è l’ultima ratio, e dove ci sono delle procedure che garantiscono, o cercano di garantire, il rispetto della libertà individuale e dei diritti dell’imputato. La forma è sostanza in un processo: possiamo tutti essere convinti della colpevolezza dell’imputato. Se l’accusa non riesce, nella sua attività, a produrre elementi che dimostrano che l’imputato è colpevole, esso verrà assolto. Giustizia non è fatta? Certo che sì! Perché se così non fosse, la volta successiva potremmo condannare un innocente forzando le procedure per arrivare a un risultato. Vi fidereste di un sistema dove vige l’arbitrarietà, anche per raggiungere un fine condivisibile, quale è la condanna di un colpevole?
 
Questa è la cultura di uno dei due partiti del prossimo governo. Il timore dei pochi liberali rimasti in Italia è che possa a breve diventare la cultura di tutto l’esecutivo, vista la debolezza della politica mostrata in queste settimane.
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Politica

Cosa ci insegna l’esperienza di Rory Stewart

Da un paio di settimane mi sono accorto dell’esistenza di un deputato britannico, conservatore, che si candida come leader del suo partito e quindi come prossimo primo ministro.

Secondo me la sua storia e i suoi modi insegnano qualcosa anche a noi.

Rory Stewart è pura élite britannica, nato da famiglia scozzese, padre diplomatico e alto ufficiale dell’intelligence, ha studiato tra Eton e Oxford. Si racconta parte della sua storia in un pezzo pazzesco del New Yorker del 2010, che ci aveva visto lungo, e con interviste allo stesso Rory Stewart, alla madre, al padre e ad amici e rivali ne ricostruisce il profilo. Élite, certo, ma consapevole del proprio ruolo e soprattutto al servizio del proprio paese nel mondo: Stewart ha rappresentato (in varie vesti) il Regno Unito in Indonesia, Ex Jugoslavia, Iraq, Afghanistan e altri posti. Per questo riesce a stemperare il lato snob della sua educazione/istruzione: ha visto il mondo, si è messo in gioco molto al di là delle situazioni confortevoli in cui la tanto vituperata upper class occidentale si trova quando intraprende esperienze all’estero.

Una delle caratteristiche di Stewart è che pare essere genuino e integro nel difendere le sue idee. Intervistato da LBC, spiega perché, secondo lui, l’essenza della politica è parlare e incontrare tutti. Il giornalista lo incalza e a un certo punto gli chiede: “Incontreresti l’Isis?” Stewart ci pensa un secondo, sa che la risposta potrebbe danneggiarlo o essere strumentalizzata, e poi risponde, ovviamente prestandosi alla provocazione: “Mi incontro con tutti, ero in Iraq e ho incontrato persone che stavano letteralmente sparando contro il mio accampamento. Questo è quello che faccio, incontro tutti”. Insomma, il primo messaggio è “apertura”, il secondo (interpreto) è: “Se sono consapevole delle mie idee non ho paura dei confronti”.

Parte della campagna di Stewart si basa proprio su questo, l’hashtag è #RoryWalks, e mostra il deputato mentre cammina e incontra i cittadini in tutto il paese. La campagna richiama anche uno dei suoi bestseller, scritto prima di candidarsi tra i Tories. “The places in between”, racconta il suo viaggio, a piedi, quasi sempre da solo, in Afghanistan (e poi fino in India), dopo i primi mesi della campagna militare di Stati Uniti e Regno Unito, nel gennaio 2002. Il libro ha venduto moltissimo, ha vinto premi, ne ha messo in luce la capacità narrativa. Ha votato per il remain al referendum su Brexit, ma ha accettato il risultato e adesso è partigiano di un accordo che provi a tenere tutto insieme, senza mentire ai britannici. Ha spiegato come la vede in un editoriale sul Guardian, molto apprezzato.

Quando dico che questa storia racconta qualcosa anche a noi, intendo che la via dei radicali di sinistra non è l’unica possibile per cercare di costruire un’alternativa al populismo e al sovranismo. Non c’è soltanto l’aggressività di Alexandria Ocasio-Cortez da un lato e il bacio del rosario di Salvini dall’altro. Così come non esiste soltanto la strategia di Emmanuel Macron, cioè la santa alleanza di tutte le forze ragionevoli per battere l’unica alternativa che in questo momento il sistema francese vede in campo: Marine Le Pen.

Si può essere di destra, conservatori, non entusiasti di andare verso un superstato europeo, senza per questo diventare dei democratici illiberali come Orbán. Si può essere molto lontani dai sovranisti e allo stesso tempo non essere impauriti da categorie come “identità” o “fermezza”. Si può essere orgogliosi di far parte della civiltà occidentale, fieri di vivere nel più bel continente al mondo, dove la libertà viene prima di ogni cosa, senza essere razzisti o provinciali.

Rory Stewart sarà minoritario e non vincerà la leadership? Può darsi. Ma qualche appunto su come fa politica lo possiamo prendere anche qui da noi, che male non fa.

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Diritto

Battisti, o il corpo del condannato riesumato da Salvini e Bonafede

Sottrarre “il corpo del condannato” alla vista della folla è uno dei motivi che ha spinto il sistema penale a inventare la prigione e a sospendere le esecuzioni pubbliche. Il potere nasconde il criminale alla vista, perché non ritiene più necessario esporne il supplizio al godimento (o alla rabbia) popolare.

Il carattere pubblico del supplizio, il ludibrio, permetteva al re di mostrarsi più forte del criminale, che con il suo gesto non aveva attaccato soltanto la vittima, ma anche il fondamento del potere reale di legiferare.

E’ interessante notare l’atteggiamento di Matteo Salvini e Alfonso Bonafede, che nel caso di Cesare Battisti decidono di riesumare la funzione taumaturgica del corpo del condannato. Segnala, se mai ce ne fosse stato ancora bisogno, la regressione della forma e della sostanza della nostra politica e del suo utilizzo delle immagini.

Può tuttavia anche essere un’occasione per rileggere Sorvegliare e punire di Foucault. Non tutto, basta il primo capitolo.

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